Cecilia Faragò: l’ultima donna accusata di stregoneria e processata in Calabria

Nell’immaginario collettivo la figura della strega è associata ad un personaggio dalle caratteristiche negative. La strega è colei che fa magia nera, adepta del demonio. È una persona cattiva, dall’aspetto sgradevole, oppure è una donna dotata di particolare fascino e con spiccate capacità di seduzione e convinzione… una maliarda.

Circe ha sedotto Ulisse e poi ha trasformato i suoi compagni di viaggio in maiali.

Medea, il cui nome in greco significa “astuzie e scaltrezze” è una maga dotata di poteri addirittura divini. Aiutò Giasone nella conquista del vello d’oro e in seguito al suo tradimento arriva ad uccidere i propri figli.

Ma Medea e Circe sono delle figure negative? In realtà rappresentano l’enorme potere femminile che dispensa la conoscenza solo ai giusti e ai degni; la rovina a chi tenta di umiliarle, sottometterle e ingannarle.

E abbiamo tantissimi altri esempi, basta guardare i cartoni animati, dove spesso c’è una potentissima strega, a volte bella e a volte brutta, che ostacola le vicende amorose dei vari personaggi: Ursula la strega del madre, Malefica, Grimilde … giusto per citarne qualcuna.

Ma chi erano veramente queste donne? Così cattive, e soprattutto perché erano così temute, tanto da diventare vittime di quello che fu un vero e proprio olocausto? Molte di loro – la maggior parte – erano levatrici, ostetriche, erboriste, guaritrici sagge e di grande valore. Esse mettevano il loro sapere a disposizione della popolazione contadina che senza  sarebbe stata abbandonata a se stessa.
Questo potere faceva paura e vennero accusate, fra le tante, di satanismo, infanticidio, vampirismo e perversione sessuale. E anche se non venivano bruciate, le torture inflitte comunque le portavano lo stesso alla morte. Spesso le confessioni che si ottenevano era frutto delle torture degli inquisitori e nonostante queste fittizie ammissioni, venivano lo stesso mandate a rogo perché il fuoco era l’unico mezzo per poter purificare la loro anima.

Ma venivano anche viste come un capro espiatorio, come per esempio nel caso del flagello della peste nera – che dal 1347 al 1350 decimò le popolazioni, riducendo all’indigenza interi paesi – sconvolse ogni residuo di ragionamento logico e giuridico e preparò il terreno alle persecuzioni, causando delle vere e proprio psicosi di massa, dove qualunque donna poteva essere accusata di stregoneria e, di conseguenza, causa della pestilenza. Eliminata lei, teoricamente, si eliminava il problema.

L’ultima donna accusata di stregoneria e processata in Calabria fu: Cecilia Faragò.

Nacque a Zagarise (CZ) nel 1712. Vent’anni dopo andò in sposa a un agiato possidente terriero. Il marito di Cecilia era di salute malferma e ossessionato dal timore di mancare l’appuntamento col paradiso. Dispose quindi che tutto il suo patrimonio andasse alla Chiesa. Dopo la sua scomparsa, i due chierici che lo avevano convinto a quel gesto propiziatorio passarono all’incasso ma i loro piani furono ostacolati dalla vedova che, ridotta in miseria, denunciò pubblicamente che si erano approfittati della fragilità e della impressionabilità del defunto marito per ottenere il lascito.

La resistenza di Cecilia indispettì non poco i due preti e li indusse ad una reazione spregiudicata.

All’inizio del 1769 era morto il canonico Antonio Ferraiolo ed era rimasta ignota la causa del decesso.

I due convinsero quindi la madre di costui a denunciare la Faragò per stregoneria e ad accusarla di avere provocato la morte del figlio sottoponendolo a malefici: gli avrebbe dapprima scagliato addosso una polvere magica e poi lo avrebbe ammaliato con lo sguardo e con movimenti delle labbra fino a portarlo rapidamente alla morte.

Occorrevano dei riscontri e furono trovati anche quelli: un medico locale sottopose ad autopsia la salma del canonico e concluse che il decesso era avvenuto per causa inspiegabile; la Faragò fu incarcerata e, profittando della sua forzata assenza, la sua abitazione fu perquisita e saltarono fuori unguenti, minerali e ossa che furono poi repertati come prove decisive di esercizio della stregoneria.

Sennonché, la corte di Catanzaro dinanzi alla quale fu presentato il caso non si fece distrarre da quel maldestro apparato scenico e dichiarò di non procedere nei confronti dell’imputata.

La madre della presunta vittima non desistette e appellò la decisione sfavorevole dinanzi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli. Entrò così in scena l’avvocato Giuseppe Raffaelli, un giovane avvocato alle prime armi di appena 20 anni.

Raffaelli strutturò una discussione di straordinaria efficacia, affidandosi a solide conoscenze storiche, filosofiche, mediche e scientifiche che fecero breccia nel collegio dei giudici d’appello.

Dimostrò che il canonico Ferraiolo era morto non per sortilegi misteriosi ma a causa dell’incompetenza dei medici che l’avevano curato i quali non avevano riconosciuto la sua patologia e gli avevano somministrato farmaci che anziché guarirlo ne avevano accelerato il decesso.

Finì come doveva finire: l’appello fu respinto e Cecilia Faragò fu assolta.

Non solo: tali furono il clamore suscitato dal processo e l’evidenza delle manovre illecite del clero catanzarese da indurre Ferdinando IV di Borbone, sovrano del Regno di Napoli, a decretare l’abolizione del reato di stregoneria.

Cecilia Faragò, pur scagionata nel modo più completo, non riuscì a rientrare in possesso dei beni del marito e morì in miseria.

Giuseppe Raffaeli divenne un luminare dell’avvocatura e della magistratura.

L’intera vicenda viene raccontata nel libro, ormai fuori catalogo: La fattucchiera Cecilia Faragò. L’ultimo processo di stregoneria e l’appassionata difensiva di Giuseppe Raffaelli.

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