

Titolo: La mia parola contro la sua – Quando il pregiudizio è più importante del giudizio
Autrice: Paola di Nicola
Casa Editrice: HarperCollins Italia (5 ottobre 2018)
Numero Pagine: 240
Voto: 4/5
Prezzo Copertina: 17,50 €
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Trama: “Le donne mentono sempre”. “Le donne strumentalizzano le denunce di violenza per ottenere benefici”. “Se l’è cercata”. “Le donne usano il sesso per fare carriera”. “Ma tu com’eri vestita?”. Questi sono solo alcuni dei pregiudizi che la nostra società ha interiorizzato. Pregiudizi volti a neutralizzare la donna e a perpetuare una sudditanza e una discriminazione di genere in ogni settore, soprattutto in quello giuridico, che è il settore determinante perché tutto possa rimanere come è sempre stato. Viviamo immersi in questi pregiudizi. Ogni nostro gesto, parola, azione deriva da un’impostazione acquisita per tradizione, storia, cultura, e neanche i giudici ne sono privi. Con la sua attività di magistrato, Paola Di Nicola ha deciso di affrontare il problema dalle aule del tribunale, ovvero dal luogo in cui dovrebbe regnare la verità e invece troppo spesso regna lo stereotipo. Se impariamo a guardare il mondo con lenti di genere, si apriranno nuovi spiragli, nuovi colori e nuove strade, e allora impareremo che una civiltà senza violenza può esistere, che l’armonia fa parte di noi, che uomini e donne possono stare l’uno al fianco dell’altra con amore e valore, che il nostro modo di parlare può essere più limpido, pulito e chiaro, che il silenzio dei complici si chiama omertà ed è un muro che va abbattuto.

La mia parola contro la sua è un libro attuale, che parla di tematiche riguardanti gli stereotipi di genere, i pregiudizi nei confronti delle donne, l’utilizzo del femminile nella lingua italiana, e affronta tante altre questioni sulla condizione della donna in una società che patriarcale e misogina.
Il problema, come anticipato dal sottotitolo, nasce dai pregiudizi nei confronti delle donne, generati dalle gabbie dei ruoli sociali a cui ciascuno di noi è costretto inconsapevolmente a rispondere. Per quanto se ne possa dire, c’è la necessità di dividere il maschile dal femminile. Ognuno ha i suoi doveri ai quali deve adempiere, esempio: le donne si devono dedicare alla cura della casa, gli uomini devono essere forti e coraggiosi. La costruzione sociale del genere avviene sin dalla nascita. Uscire fuori da queste imposizioni genera discriminazione, pregiudizio e machismo. La soluzione? Rompere le gabbie, e sentirci nel giusto anche quando facciamo cose che vengono attribuite al genere opposto.
Nel libro c’è anche un capitolo interamente dedicato agli uomini. Attraverso una lunga lettera l’autrice chiede il loro supporto, perché bisogna partire dal loro modo di relazionarsi con le donne per risolvere il problema, e solo lavorando insieme è possibile fare tutto ciò.
Cari uomini,
c’è bisogno di voi, uno per uno, per vincere questa difficile battaglia per un mondo profumato di libertà e dignità. […]
Si parla anche dell’uso della lingua italiana. Il femminile esiste per lavori semplici, se saliamo nella scala di potere e riconoscimento sociale ed economico, iniziano i problemi. Nominare o non nominare le donne è una scelta culturale (non linguistica!) di renderle visibili o invisibili. Non esistono parole al femminile per definire, per esempio, alcuni impieghi: Capitano, ingegnere, consigliere, ecc.
[…] è chiaro che nella lingua non si nomina quello che non c’è e chi non c’è; ma quando le donne finalmente ci sono, arrivate peraltro con immensa fatica, facendosi largo contro resistenze millenarie nei costumi e nelle leggi, tanto da doverne imporre la modifica, perché non dobbiamo usare il femminile?
Anche i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti delle donne che dichiarano di subire molestie e\o violenza sono tanti. Spesso vengono messe in dubbio le loro parole e si utilizzano espressioni che vanno a colpevolizzarle. L’autrice prova a dare una risposta e delle spiegazioni a domande e affermazioni che vengono poste in queste situazioni: da “se l’ è cercata!” a “Che vestiti indossava?”.
Il risultato sono spesso tragiche affermazioni, mai banali. Il tutto è argomentato attraverso dati, statistiche, sentenze e analisi della lingua, mettendo in luce uno scenario in cui le donne sono spesso obbligate a difendersi.
La mia parola contro la sua offre anche un interessante approfondimento sulle “fimmine ribelli“, ovvero quelle donne che hanno deciso di collaborare con la giustizia, denunciando mariti, fratelli e amici di attività mafiose. Ma anche quelle che non accettano più la condizione cui sono state destinate per nascita e si ribellano non sposando colui che è stato imposto dal clan, o decidendo di non fare figli, di voler studiare, di uscire sole, di andare via di casa con i propri bambini.
Le fimmine ribelli sono donne che hanno la forza di sradicare gli stereotipi delle più crudeli associazioni criminali conosciute e, diversamente dalle donne che subiscono in silenzio la violenza di un contesto ritenuto ordinario, si ribellano con la massima eclatanza, questa volta aiutate e credute dallo Stato, con l’unico obiettivo di diventare donne normali.
Insomma sono tutte quelle donne che scelgono di non obbedire più e non fare parte di un sistema mafioso che le considera come degli oggetti privi di identità e nel momento in cui inizia a delinearsi un carattere che ostacola quest’idea devono essere represse, cancellate e spente al fine di non mettere in crisi l’intera struttura patriarcale.
Consiglio vivamente la lettura. La mia parola contro la sua è un libro ricco di risposte, capace di aprire gli occhi su situazioni di discriminazione, pregiudizi e violenza che molte donne – troppe!- sono costrette a vivere quotidianamente, e dalle quali non riescono ad uscire poiché immerse in un contesto misogino e patriarcale che camuffa determinati atteggiamenti come cose normali.
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